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Le Ragioni III ‘Elena’

Tutti lasciamo qualcosa o qualcuno nel passato

Ritornano a sentirsi solo il canto e il frusciare delle vesti delle donne che salgono gli scalini verso la cima. Lentamente la loro voce va perdendosi fra le tenebre dense fino a svanire. Quasi sulla vetta della scala si fermano e una di loro, quella dai veli bianchi, si volta con noncuranza verso gli astanti. E’ Elena Argiva. E’ bella, la donna più bella de mondo. I capelli biondi le scendono dalle spalle sul seno in onde dorate, sembra una dea. Ma non sembra viva, Elena. Marmorea, algida, dallo sguardo vacuo e privo di coscienza. Con indifferenza incomincia a parlare.

“Io tutto quello che ho fatto non l’ho mai fatto. Ero e non ero io. Un’altra me che portava qualcosa di me: l’aspetto, la voce forse, qualche pensiero. Ma non sono io quella persona e non è questa una difesa, io non devo perorare alcuna causa davanti a voi. Ma voi m’accusate, sì, d’aver scatenato la guerra, quando in realtà non state accusando me, bensì state accusando un’altra Elena, che non sono io. Solo lei potrebbe parlarvi dell’amore folle che la invase o della pazzia che le annebbiò la mente quando decise di prendere il mare con il giovane Paride, solo lei potrebbe descrivervi il calore delle sue mani abbronzate quando le premevano le braccia bianche e l’avvicinavano al suo petto scaldandola, solo lei potrebbe rispondere alle vostre domande indicandovi il disprezzo che provava per Menelao e l’indifferenza per la reggia di Sparta, solo quell’Elena potrebbe dirvi cosa significhi ammirare dall’alto della rocca di Troia schiere di uomini che combattano per lei. Ma io, io che sono, malgrado tutto, ora Elena, non posso dirvelo, non posso raccontarvelo, perché tutto ciò non ha niente a che fare con me. Quale sono ora, nulla di quanto è avvenuto io l’ho mai vissuto né di esso infatti m’appartiene alcun ricordo. Fossi io quell’Elena, ora non ricorderei tutto non solo con la memoria ma anche col corpo? La mia mano non cercherebbe istintivamente la sua? La mia lingua non invocherebbe il suo nome, Paride, scongiurandolo di tornare a prendermi un’altra volta? E forse non ricorderei qualcosa del tempo che vissi a Troia lontano dai miei e dalla mia casa? Non serberei un’immagine amorosa del letto che più d’ogni altro luogo mi vide giacere felice? Ebbene no, niente di tutto questo m’accade, un’altra persona, un’altra me lo visse, non io, non Elena. Un mio fantasma partì per Troia, mentre io restavo sospesa, ferma e immobile, in Egitto ad attendere che tutto accadesse. Nulla mutò in me lungo quegli anni penosi, mentre lei invece, l’altra Elena, viveva dietro le mura di Troia, nel palazzo di Priamo, amata e amando Paride Alessandro. Io né amo né sono amata e Paride non è niente per me. E’ un nome come tanti, un’identità come tante, un uomo con la sua storia come tanti. Perduto per sempre l’amore, causa della morte di molti e della sofferenza delle vedove, dovrei, fossi quell’Elena, essere ora sconfitta, annientata dalla pena di tutto ciò. Dovrei soffocare dal dispiacere che ostruisce la gola e blocca la bocca, che intenso si dilata nello stomaco come il respiro e dal solo dolore che dilaga tra le membra.
Cosa dite? Che tengo un’intera reggia sotto droga? Non lo nego. Sparta è ai miei piedi e nulla più vi accade. Io volli così e lo voglio adesso perché è l’unico modo per sopportare di essere ancora qui, a Sparta. E allora a Sparta non deve avvenire più nulla, Sparta deve essere offuscata a sua volta perché io non potrei sopportare di non esserlo. Per questo mesco narcotici nelle coppe d’oro di abbondante vino. I farmaci e la conoscenza dei farmaci mi vengono dall’Egitto, dove stetti sospesa, per placare il dolore di quella felicità che l’altra Elena visse là, a Troia e sul mare. Tornare come una prigioniera, il bottino della guerra, la causa della guerra. Ma sappiate che mai sarei partita, se avessi avuto conoscenza del ritorno. Cosa significa? Che l’amore che lei visse, la gioia esasperata e divampante che provò nel baciarlo, nello stringergli i fianchi, nel premere il suo seno contro il suo petto sentendo la sua eccitazione e il suo desiderio sulle labbra, quella felicità che si volle prendere a discapito del mondo intero che le si muoveva contro non valse la pena infinita che io ora soffro, non valse il dolore e la rassegnazione che ne seguirono nel mio cuore, nel mio di cuore, che non è più il suo. Perché quando raggiungi la cima dell’Olimpo e sei così felice e inebriata, non puoi scenderne, puoi solo precipitare perché sai che sull’Olimpo, a quel primo amore ingenuo e inconscio, non potrai più tornare. E la felicità la provi una volta sola. Per questo chiedete tutto quello che io non so a quell’Elena che fu felice, lei potrà rispondervi, non io che, narcotizzata e senza una vera memoria, della sua felicità porto solo l’eredità infeconda.”